A 53 anni se n’è andato, vinto dalla leucemia, Sinisa Mihajlovic, che fu un grande calciatore della Roma e Sampdoria e allenatore del Bologna in una delle sue stagioni più belle degli ultimi anni…
Mihajlovic nacque il 20 febbraio 1969 e le sue esperienze al Borovo e al Vojvodina convinsero la Stella Rossa a portarlo a Belgrado dove divenne il protagonista di un ciclo straordinario della squadra serba.
Da esterno sinistro offensivo ha conquitò due campionati jugoslavi, dopo quello vinto al Vojvodina, una Coppa dei Campioni e una Coppa Intercontinentale.
La Roma decise di portarlo in Serie A, dove rimase per due stagioni prima di trasferirsi alla Sampdoria dove Eriksson lo trasformò in difensore centrale, ruolo che lo fece esplodere definitivamente nel ciclo laziale in sei anni con uno scudetto, due Coppe Italia, altrettante Supercoppe nazionali, una europea e una Coppa delle Coppe.
Mancini lo volle all’Inter dove chiuse a carriera da giocatore vincendo un altro scudetto, due Coppe Italia e una Supercoppa italiana, con più di 100 gol, compresi quelli nella nazionale jugoslava, poi Serbia – Montenegro, grazie a un sinistro devastante diventato leggenda grazie ai calci piazzati, tra cui spiccò la tripletta su punizione alla Sampdoria nel 1998.
Nel 2006 si ritirò e divenne il secondo di Roberto Mancini all’Inter dando inizio alla carriera di allenatore.
Da primo tecnico partì dal Bologna nel 2008, prima di guidare Catania e Fiorentina, la nazionale serba, Sampdoria, Milan, Torino, nove giorni tormentati allo Sporting Lisbona e il ritorno a Bologna, dove sostituì Pippo Inzaghi e dove, all’inizio della stagione 2019/20, annunciò in una conferenza stampa la sua malattia.
Uomo di calcio dalla personalità unica, senza mezze misure, Sinisa fu capace di gesti straordinari e di litigi leggendari, sfociati il più delle volta in grandi amicizie, come con Ibrahimovic e ha preso posizioni discusse, come nel caso di Arkan, organizzatore della pulizia etica voluta dal presidente serbo Milosevic, da lui difeso, non rinunciando mai a essere sé stesso e a dire quello che pensava in un mondo basato su dichiarazioni standard e scontate.
Negli ultimi anni Sinisa era segnato dalla malattia ma era sempre presente in panchina, sul campo di allenamento o intento a guidare i suoi dall’ospedale, simbolo di un uomo che non si è mai voluto nascondere.