Un disegnatore dallo stile insolito, che visse un’esistenza particolare nella Torino del primo Novecento…

Giuseppe Porcheddu nacque il 1 maggio 1898 a Torino, dove il padre Giovanni Antonio aveva aperto uno studio professionale per la creazione di conglomerati in calcestruzzo armato, grazie alla concessionaria esclusiva in Italia del brevetto Hennebique.

Dopo aver studiato da autodidatta, Giuseppe, mentre era in visita al primo salone internazionale dell’umorismo in Italia, tenutosi a Rivoli nel 1911, sviluppò una grande passione per l’arte di Arthur Rackham e Edmund Dulac e poco tempo dopo fece il suo debutto sul Corriere dei Piccoli e sulla Domenica dei Bambini.

Terminati gli studi classici, cui era stato incoraggiato dallo scultore Leonardo Bistolfi, Porcheddu frequentò i corsi di disegno presso la facoltà di architettura del Politecnico di Torino.

Nel 1916, durante la prima guerra mondiale, fu richiamato al fronte con il grado di tenente degli Alpini e, negli ultimi giorni del conflitto, una ferita in battaglia lo rese claudicante per tutta la vita.

Al ritorno dal fronte, Porcheddu lavorò come illustratore per la rivista Il Pasquino e, nel 1920, per le riviste Numero, La Lettura, L’Illustrazione del Popolo e Il Novecento, nello stesso anno fu assunto nella sezione d’arte delle Edizioni De Agostini, dove realizzò le tavole della serie I grandi prosatori e le illustrazioni del romanzo Angelo di Bontà di Ippolito Nievo.

Porcheddu si concentrava sugli aspetti macabri e grotteschi del fantastico, in particolare sulle figure di sirene, di lucertole, del dio Dioniso, le cui caratteristiche, come il naso storto e le espressioni maligne, vennero influenzate dai lavori dei disegnatori del Nord Europa.

Fu dalla sua prima produzione, Porcheddu mostrò una naturale inclinazione a essere quello che Massimo Oldoni vide come il simbolo di un mondo, il Medioevo, che è incarnato nella metafora di qualsiasi altra civiltà precedente, come dimostrano i disegni che raffigurano la fortezza-abbazia, la foresta e il cavaliere.

A partire dal 1922 Porcheddu iniziò la sua attività di progettista di bambole, giocattoli di design, e decoratore di ceramiche, come dimostrano i lavori che propose nel 1929 alla mostra della produzione della fabbrica Lenci, presso la Galleria Pesaro di Milano.

Nel 1938 firmò la sceneggiatura di Ettore Fieramosca di Alessandro Blasetti e un anno dopo lasciò Torino e si trasferì a Bordighera.

Fu l’ideatore delle vignette dei nanetti per il Corriere dei Piccoli e illustrò Anello di Birmania, un romanzo di Renato Brunati, per il Balilla.

Chiamato dalla Mondadori, Porcheddu lavorò con Federico Pedrocchi alle illustrazioni di Il castello di San Velario di Eros Belloni, che fu pubblicato postumo, nel 1948, in due Albi doro di Topolino.

Il suo capolavoro rimangono le illustrazioni per il Pinocchio di Collodi del 1942, dove utilizzò solo tre colori, rosso mattone, blu carta da zucchero e il bianco biacca, cui aggiunse il nero ed ebbe l’intuizione di fare i disegni su cartoncini grigio chiaro o beige, dando una precisa valenza cromatica anche allo sfondo.

Nella sua villa, Llo di Mare, il disegnatore ospitò molti antifascisti e, durante la guerra, diede alloggio alla moglie e figlia di Concetto Marchesi latinista e partigiano, oltre a due ufficiali britannici, di cui uno divenne suo genero.

Il 27 dicembre 1947 Porcheddu partì dalla Liguria diretto a Roma, dove si teneva una mostra dei suoi dipinti, ma di lui non ebbe più notizie.

Da Bordighera aveva spedito una lettera alla sorella Ambrogia, dove scrisse “La vita è un continuo tradimento. I più bei sogni… restano sogno. Chissà quando ci rivedremo?”