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Nato a Zinasco, in quel mondo tra le acque delle risaie e la luce della luna che è la Lomellina, Giorgio Boatti si è laureato all’università di Pavia ed è uno dei più noti saggisti della storia del Novecento italiano.

Tra i suoi lavori più conosciuti ricordiamo Piazza Fontana, sull’attentato del 12 dicembre 1969 di Milano, e Preferirei di no, la storia dei dodici professori universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo.

Ora nel suo primo romanzo, Abbassa il cielo e scendi, pubblicato da Mondadori, Boatti racconta la vicenda, tra memoir e realismo magico, del suo tormentato rapporto con  il fratello Bruno, affetto da schizofrenia, nel Pavese del secondo dopoguerra.

 

Come si definirebbe?

Definire? Ovvero, letteralmente, dove finiscono i nostri passi, a quali fini/confini si spingono? La risposta ovviamente cambia a seconda delle stagioni della nostra vita. Per parte della mia, almeno dal punto di vista intellettuale e professionale, sono stato uno storico – “lo storico è come l’orco della fiaba, dove annusa presenza umana arriva”, diceva un grande maestro della ricerca storiografica come Marc Bloch. Da storico,  oltre a voler comprendere il passato, ovvero il cammino delle generazioni che ci hanno preceduto, si cerca di far tesoro di questa conoscenza in funzione del presente. E dell’intervenirvi, dunque. Per rendere il mondo nel quale operiamo migliore di come lo si è trovato. Forse per questo lo storico che sono stato – l’autore di libri editi da Feltrinelli, Rizzoli, Mondadori,  su vicende italiane, dallo spionaggio alla strage di piazza Fontana, dal terremoto di Messina alla coraggiosa opposizione dei dodici professori, su 1200, che non giurarono fedeltà a Mussolini – diventa poi giornalista. Realizza reportages e inchieste, raccontando il nostro Paese, girando la penisola in lungo e in largo. Facendo nascere così la trilogia – “Sulle strade del silenzio”, “Un paese ben coltivato”, “Portami oltre il buio” – pubblicata presso Laterza editori. Poi con il passare degli anni giunge il tempo della memoria: non tanto per nostalgia del passato ma per transitare, come superando un guado, dalle vicende del sé, dell’io, ad un più arioso e corale “noi”.  Un raccontare che inserisca le proprie esperienze – personali, famigliari – nelle grandi vicende  e periodizzazioni delle storia comune. La storia che espongo in  “Abbassa il cielo e scendi”, un romanzo dove tutto è vero, è proprio un passare dall’io al noi. Nella fiducia che questa esperienza posso servire a comprendere le nostre fragilità, le nostre vite imperfette. Aiutandoci a superarle. A stendere la mano e rialzare chi cade e stenta a procedere.

 

Ha qualche aneddoto particolare della sua infanzia e adolescenza a Zinasco?

Il paese era ai bordi del mondo. E la mia casa al bordo del paese, proprio dove iniziavano i boschi. Questo apparente isolamento dalla civiltà, o almeno dal presente in svolgimento, mi ha regalato un’infanzia da altri tempi. Ho vissuto i miei primi dieci anni come un bambino dell’Ottocento, forse del Settecento. Senza luce elettrica in casa. Dunque fronteggiando il buio della sera con candele e lampade a petrolio. Senza radio, senza elettrodomestici. Senza acqua corrente. Attingendo alla fontana e lavandoci nel lavatoio sull’aia. La simbiosi con la natura, gli animali, le stagioni,  è stata pressoché totale, senza mediazioni che oggi sono scontate.  Ritengo sia stato un privilegio, tutto questo vissuto. Un privilegio era anche quella lontananza dal mondo che stava là fuori, oltre l’orizzonte dove vedevo tramontare il sole. Era un’assenza, quella lontananza, che mi dava una lancinante nostalgia di quanto neppure conoscevo ma che intuivo esserci. E che desideravo conoscere. Già allora temevo il buio. Quando il sole stava per tramontare mi mettevo a correre verso il suo declinare, verso occidente, sperando di acchiapparlo e di rimanere sempre sotto quel suo manto luminoso. Quello in cui la luce declinante sembra una carezza. Forse è anche per questo che ancora oggi amo i tramonti. Li colleziono, giorno dopo giorno, con intensità quasi mistica.

Quali sono stati i suoi autori preferiti da ragazzo?

In casa non c’erano libri. I primi che mi sono capitati tra le mani erano quelli della piccola biblioteca scolastica. Forse è per questo che ancora oggi mi batto affinché ogni località abbia una sua biblioteca pubblica: non solo per prestare libri ma per aprire al mondo, agli altri, quel gheriglio di noce che il nostro vivere in solitudine. Penso che “L’isola del tesoro” sia stato il primo libro che ho letto. Appena l’ho finito ho pensato che avrei voluto scrivere un libro anch’io. Forse ci ho anche provato. Parlava di un’isola, ovviamente. E fin lì, nell’immaginare come posare i piedi sulla terra e viverci, ci sono arrivato. Poi mi sono fermato quando dovevo far entrare in scena il mare. Non l’avevo mai visto.

 

In che modo è arrivato prima a diventare saggista e ora scrittore?

Ho cercato di spiegarlo nelle domande precedenti.

 

Nei suoi libri ha affrontato la grande Storia, da Piazza Fontana al fascismo, e ora il tema della malattia mentale nel Novecento…

Anche qui ho poco da aggiungere a quanto detto prima.

 

Come si è documentato per Abbassa il cielo e scendi?

Documentato? Non è stato necessario. Ciò che si vive direttamente diventa parte di noi, non ha bisogno di documenti da affidare a qualche archivio. La memoria continua ad essere vita viva, e ha il sapore delle nostre esperienze.

 

E stato difficile trasportare sulla carta una storia così personale?

Trasportare sulla carta? L’espressione fa pensare ad un peso da sostenere, ad una zavorra da traslocare. Invece raccontare una storia così personale, ma tutte le nostre storie non lo sono, forse?  non è stato affatto farsi carico di un peso ulteriore. E’ stato piuttosto alleggerirsi di qualcosa. E’ stato un diventare più lievi, più semplici, più essenziali, via via che si affidava alla pagina quello che era conservato nella memoria. Nessuna fatica, nessun sforzo. Bastava lasciare che le cose dentro se stessi accadessero. Anche a nostra insaputa. Cuore e memoria, se non si mettono loro le redini, lavorano benissimo in simbiosi. Insieme alla scrittura.

 

Quali sono i suoi progetti futuri?

Cercare di vivere pienamente, dando senso ad ogni giorno. Vivere, e non accontentarsi di sopravvivere come temo si faccia spesso, soprattutto ad una certa età, mi sembra già una sfida piuttosto impegnativa. Basta ed avanza.

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