Podcast

L’equivoco che confonde audio e video è più diffuso di quanto si pensi. Ecco perché chiamare “video” un podcast è un errore culturale e mediatico.

Nella comunicazione digitale di oggi, dove tutto corre veloce e ogni contenuto sembra mescolarsi con un altro, il termine “podcast” viene spesso usato in modo scorretto, soprattutto nei contesti promozionali o mediatici.

Sempre più spesso capita di leggere annunci del tipo: “Guarda il nostro nuovo podcast su YouTube” o “È uscito il video del podcast”. Ma c’è un problema di fondo: un podcast non è un video.

Il podcast, per definizione, è un contenuto audio. Nasce come file sonoro scaricabile o ascoltabile in streaming, distribuito attraverso piattaforme dedicate o tramite radio e internet.

Ha origini nella trasmissione radiofonica, da cui eredita non solo il formato, ma anche lo stile narrativo e la struttura. La parola stessa unisce “iPod” (il celebre lettore MP3 di Apple) e “broadcast” (trasmissione), a sottolineare la natura sonora e seriale del mezzo.

Quando l’immagine uccide l’ascolto

Etichettare come “podcast” un contenuto video – magari corredato di sigle animate, inquadrature multiple e montaggi ritmici – snatura la logica dell’ascolto e crea un cortocircuito culturale.

Il podcast autentico si ascolta mentre si guida, si cammina, si cucina. Non richiede uno schermo, ma solo attenzione uditiva. È un luogo dell’immaginazione, dove la voce crea mondi e le pause parlano quanto le parole.

Chiamare “podcast” un video è come chiamare romanzo un film: può trattarsi della stessa storia, ma non è lo stesso mezzo.

Confondere i linguaggi non è solo un problema tecnico: è un errore che riduce la specificità dei media, danneggia il lavoro di chi produce veri podcast audio e impoverisce l’esperienza del pubblico, spingendolo verso un consumo visivo compulsivo.

La responsabilità dei media e degli enti culturali

Oggi anche enti pubblici, musei, fondazioni e testate giornalistiche cadono nell’errore, presentando come “podcast” dei prodotti video in cui, al massimo, le voci fuori campo simulano una narrazione audio.

Si perde così l’opportunità di educare all’ascolto, di offrire contenuti fruibili in modo libero e intimo, capaci di accompagnare il pubblico in contesti dove il video non può arrivare.

Per questo è urgente che chi lavora nella comunicazione culturale e nei media digitali faccia chiarezza, utilizzando i termini corretti e rispettando la natura di ogni formato.

Se un contenuto è un’intervista filmata, è un video-intervista. Se è solo audio, è un podcast. È semplice.

Difendiamo il valore dell’ascolto

In un’epoca dove l’immagine regna sovrana, è fondamentale riconoscere e valorizzare i linguaggi dell’ascolto. Il podcast ha una dignità autonoma e una potenza narrativa che merita rispetto.

Confonderlo con il video significa cancellare una parte importante della cultura mediatica contemporanea.

Chi produce veri podcast lo sa: l’audio non è una versione povera del video, ma un’arte a sé. Sta a noi riconoscerlo, proteggerlo e raccontarlo nel modo giusto.

Foto di Brett Sayles