Con giovedì 25 gennaio arriva la Gioeubia, tra i suoi falò propiziatori e la tradizione del risotto con la luganiga.
Gibiana, Giubbiana, Giubiera, Giobia, Gioebia, Giobbia, Giobbiana, Zobia, Zobiana, Ul Ginèe fino anche a Zenerù, tutte le declinazioni di quest’antichissima tradizione popolare che è celebrata a fine gennaio, in diverse zone dell’Insubria e non solo, per una riscoperta delle “radici” che in molti luoghi ha portato a un vero e proprio “rinascimento”, di feste e usanze che appartengono al nostro passato, anche a quello più ancestrale.
Una tradizione quella dei fuochi propiziatori molto sentita da sempre, con le sue diverse celebrazioni, che partono dal Solstizio d’inverno (21/22 dicembre), giorno più corto dell’anno e si protraggono fino ai primi giorni di febbraio.
Fuochi che avevano la funzione da un lato di distruggere le tenebre e le influenze negative, e dall’altro di propiziare la fecondità dei campi e del bestiame e di salutare l’arrivo della bella stagione.
A seconda del modo in cui essi ardevano, si traevano auspici per il futuro: se i pupazzi ardevano completamente, restando in verticale durante la combustione, l’anno e il raccolto si preannunciavano buoni; se invece la distruzione dei fantocci non era completa, oppure se essi cadevano prima di finire di ardere, era prevista un’annata difficile.
Passando per l’Epifania, i falò di Sant’Antonio e per quelli della Gioeubia, fino a quella che era la sentita festività di celtica di Imbolc, di inizio febbraio, che segnava il passaggio tra l’inverno e la primavera ovvero tra il momento di massimo buio e freddo e quello di risveglio della luce.
Quella che oggi è nota come la Candelora dei riti cristiani. Non di rado infatti dopo l’avvento del Cristianesimo molti riti pagani vennero rivestiti di significati cristiani oppure vennero cancellati e repressi. Nei secoli la Chiesa in effetti contribuì molto allo snaturamento di molte altre feste tradizionali antichissime e di origine pagana. E forse è anche per questo che alcune sono vive ancora oggi.
In particolare in tutta la Brianza dove è chiamata la “Giubiana”, nel Seprio come “Gioebia”, in alcune zone della Bergamasca, ma si espande fino ad arrivare alle zone nord orientali del Piemonte (la Giobia Grass a Santhià), nel piacentino a Fiorenzuola d’Arda con la “Zobia”.
Manifestazioni simili però coinvolgono tutto il territorio dell’Insubria, l’ultima settimana di gennaio con nomi diversi. Si va da Locarno, Ascona e alla Val Leventina con “Bandir gennaio”, all’Oltrepo’ con i fuochi della Merla, dalla Valtellina e Valchiavenna, dove si alternano diversi riti da “Tirà li tòli” a “L’è fö l’urs de la tana”, cioè è uscito l’orso dalla tana dopo il lungo inverno. “Fora l’ours” è anche il nome delle stesse celebrazioni nei medesimi giorni nell’arco alpino del Piemonte.
Tratto particolare da segnalare è che l’usanza della Gioebia, nell’alto-milanese, parte dal Ticino in quel di Turbigo, continua sulla linea Bienate-Magnago, Castellanza e Rescaldina, nulla invece nella confinante Legnano e nel suo territorio, solo una traccia a Inveruno.
Tracciando una vera e propria linea invisibile a marcare ancora una volta la differenza tra un territorio simile, vicino, conurbato e osmotico, ma profondamente diverso non solo nel dialetto.
Molto sentita è infatti in Valle Olona, nei vari paesi e soprattutto a Busto Arsizio e Gallarate, la Gioeubia è vissuta come una vera e propria festa popolare, con falò in ogni angolo, e grandi risottate con la luganega nelle piazze principali.
Il nome “Gioebia o Giubbiana” ha origine incerta. Alcuni sostengono che derivi dal culto alla divinità di Giunone (da cui deriverebbe appunto il nome Joviana, e quindi Giubiana). Altri ancora lo ricollegano a Giove (il nome deriverebbe dal dio latino “Jupiter-Jovis”, da cui l’aggettivo Giovia e quindi Giobia).
Il termine insubrico è inoltre accostabile al trentino “zobiana”, strega, al bresciano “zobiana”, sgualdrina, e deriverebbe dal milanese “gioebia”, giovedì, ovvero il giorno creduto delle streghe.
Infatti, la sera dell’ultimo giovedì di gennaio, sin dai tempi antichi le famiglie insubri si radunavano davanti ad un grosso falò per bruciare un fantoccio fatto di paglia e stracci vecchi chiamato, a seconda delle zone, “Gibiana”, “Gioebia”, “Giubiana”.
Durante la giornata le ragazze giravano per il paese indossando una gobba finta (interessante anche qui il raffronto tra il nome della Gibiana e il latino “gibba”, gobba) e una latta da percuotere con un bastone; i ragazzi trascinavano per le strade delle latte vuote urlando a squarciagola alcune filastrocche in dialetto per allontanare il malocchio.
In alcune zone della Brianza, accanto alla Giubiana è presente anche un personaggio maschile, il “Gianèe” (personificazione di Gennaio – Giano).
La Gioebia, nell’immaginario tramandato è una strega, la strega dell’inverno… Molto alta, magra e ossuta, dal naso ricurvo con lunghe e grandi calze rosse che viveva nei boschi. Grazie alle sue lunghe gambe, non mette mai piede a terra, ma si sposta in alto, passando di albero in albero camminando sui rami.
Così, dall’alto, senza essere vista, osserva tutti quelli che entrano nel bosco con lo scopo di spaventarli o farli prigionieri.
Al suo passaggio, tutt’intorno muore, venendo ricoperto da un improvviso vento freddo, pungente e gelido. Tutto poi diventava ghiaccio. I fiori appassiscono, i prati vengono coperti completamente dalla brina, i primi germogli spariscono congelati.
Nelle sue ampie calze rosse, la Gioebia camminava su per i boschi, cercando anche quello di cui era più golosa: i bambini. Di certo non avrebbe rinunciato a un buon piatto caldo come un “risotto con la luganega” oppure a un piatto di polenta abbrustolita, ma non era capace di cucinare.
La leggenda narra che la Gioebia terrorizzasse un villaggio e di notte entrava nelle case e prendeva i bambini per nutrirsene e distruggere così anche la felicità delle famiglie. Le donne la conoscevano bene e sapevano che diventava ancora più cattiva nelle ultime sere di gennaio, quando il freddo dell’inverno si preparava a lasciar spazio alla primavera e la Gioebia, quindi, avrebbe dovuto abbandonare i boschi.
E così fu anche alla fine di un mese di gennaio, quando la Gioebia, mentre correva per i boschi, trovò una bambina che era andata a fare legna. La strega la prese e le disse: “Stasera verrò a casa tua e, se non ci sarà nulla per me, ti prenderò e ti porterò nel bosco con me”.
La bambina corse verso casa e raccontò tutto alla mamma che, da quella sera, lasciò sempre un po’ di polenta sul tavolo della cucina. Una notte, però, si dimenticò di lasciare il piatto per la Gioebia che si vendicò subito. Prese la bambina e scappò nei boschi, arrabbiata per l’affronto.
Alla mattina quando la donna si accorse che era sparita la figlia, chiamò subito a raccolta tutte le altre mamme del villaggio che iniziarono a pensare a un modo per salvarla. La donna le tese così una trappola.
Preparò una gran pentola piena di risotto giallo con la luganega, tanto quanto da sfamare un intero villaggio e lo mise sul davanzale della finestra. Il profumo era invitante, la fame tanta. La Gioebia sentì il buon odore, corse così verso la pentola, trovando però solo un piccolo cucchiaio e cominciò a mangiare.
Il risotto era tanto, ma era così buono che la strega non si accorse che stava per arrivare il sole, il quale, una volta sorto, le fu letale. Un raggio di sole la colpì alle spalle e, quasi istantaneamente, le fiamme la avvolsero completamente riducendola in un mucchio di cenere.
Così anche il freddo e il gelo che l’accompagnavano sempre, lasciarono spazio al sole, al caldo e alla luce con la natura che rinacque. Dal bosco, intanto, si vide la bambina rapita dalla strega, correre sana e salva verso la mamma. La Gioebia cessò così di terrorizzare la gente.
Il “Risotu cunt’ a lüganiga” è ovunque riconosciuto il piatto tradizionale della Gioeubia. Il riso col suo forte valore benaugurante, la “luganega” di maiale simbolo di opulenza.