Il punto con il dottor Angelo Carfì, Unità Operativa Continuità Assistenziale del Policlinico Gemelli.
Dall’indagine internazionale emerge maggiore rischio di complicanze e mortalità da infezione con Coronavirus pubblicata su EClinicalMedicine, del gruppo Lancet.
Le persone con sindrome di Down sono a maggior rischio di complicanze e di mortalità per Covid-19, anche in giovane età.
Sopra i 40 anni infatti il loro rischio di mortalità è almeno il triplo rispetto alla popolazione generale (nella quale questo rischio aumenta sensibilmente solo dopo i 60 anni).
E’ quanto emerge da un’indagine internazionale, alla quale ha preso parte anche il dottor Angelo Carfì, Dirigente Medico presso la UOC di Continuità Assistenziale della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, pubblicata su EClinicalMedicine, del gruppo Lancet.
Vista questa loro fragilità, le persone con sindrome di Down sono prioritarie per la vaccinazione anti-Covid tra i soggetti individuati dal Ministero della Salute. E anche il Centro Vaccinale presso il Columbus Covid Hospital è impegnato in questi giorni nella vaccinazione di questi pazienti.
“Questa survey – spiega il dottor Carfì – è nata dalla rete T21 Research Society (T21RS), che racchiude i più grandi esperti mondiali di sindrome di Down.
Ma i risultati sull’aumentata mortalità di queste persone, in caso di Covid-19, non devono spaventare.
Sappiamo che sono più fragili, ma oggi abbiamo la possibilità di proteggerle con la vaccinazione, oltre ovviamente facendo seguire loro le misure anti-COVID. Un punto di forza delle persone con sindrome di Down, al quale non devono assolutamente rinunciare, neppure in questo periodo, è la socialità, per loro importantissima.
Il nostro consiglio dunque è quello di farle vaccinare al più presto. E in questo l’Italia sta facendo un ottimo lavoro, anche superiore a quello di tanti altri Paesi europei.
Molto importante è anche sfruttare al massimo la possibilità di farli uscire di casa, naturalmente indossando la mascherina e con le dovute cautele.
Non devono assolutamente rinunciare ai benefici della socializzazione che sono per loro straordinari”.
La ricerca su EClinicalMedicine
Per conoscere l’impatto reale del Covid-19 sulle persone con sindrome di Down (trisomia 21) Angelo Carfì e colleghi hanno realizzato una survey internazionale (T21RS) diretta a medici e caregiver di questi pazienti.
I dati, relativi ad oltre mille pazienti e raccolti tra aprile e ottobre 2020, sono stati confrontati con quelli dei pazienti Covid, non affetti da trisomia 21.
Obiettivo dello studio era quello di verificare se le patologie associate alla sindrome di Down, la disfunzione immunitaria e l’invecchiamento prematuro correlati a questa condizione potessero avere un impatto sul decorso clinico del Covid-19.
L’età media dei pazienti con sindrome di Down con Covid-19 valutati in questo studio era di 29 anni; i segni e sintomi più frequenti del Covid-19 sono risultati febbre, tosse e dispnea, al pari della popolazione generale.
Al contrario, tra le persone con sindrome di Down sono risultati meno comuni sintomi quali dolori muscolari e articolari, nausea e vomito. Più frequentemente sono stati invece segnalati stato confusionale e alterazione dello stato di coscienza.
I fattori di rischio per ricovero e mortalità tra le persone con sindrome di Down sono risultati simili a quelle della popolazione generale, con l’aggiunta però, nel caso delle persone con sindrome di Down, dei difetti cardiaci congeniti, come fattore di rischio ulteriore per ospedalizzazione.
I tassi di mortalità nelle persone con sindrome di Down mostrano un’impennata al di sopra i 40 anni e sono maggiori di 3-3,5 volte, rispetto a quelli della popolazione generale.
Chi segue le persone con sindrome di Down quando diventano adulte?
Il Gemelli è in prima linea nell’assistenza delle persone con sindrome di Down che, superata l’età pediatrica (in questa prima fase vengono seguiti dalla dottoressa Roberta Onesimo, Centro malattie rare e difetti congeniti, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS) vengono affidati al Day Hospital di geriatria, dove dal 2014 è stato attivato un servizio a loro dedicato.
“La sindrome di Down – spiega Carfì – storicamente è sempre stata appannaggio del pediatra e del genetista, per la bassa aspettativa di vita di queste persone; ma attualmente l’aspettativa di vita di una persona con sindrome di Down è di 62 anni, grazie soprattutto al migliorato accesso alla cardiochirurgia precoce.
La sindrome ha un nucleo di complessità intrinseca e noi geriatri, avendo un background culturale che ha a che fare con la complessità, ci siamo proposti di seguirli nella vita adulta.
E’ un progetto sperimentale del Gemelli, condiviso anche dall’Istituto Jérôme Lejeune di Parigi. Ma il problema della transizione delle cure nell’adulto è ancora tutto da organizzare.”