L’uccisione tradizionale del maiale nel periodo natalizia è un rito antichissimo della cultura contadina, che affonda la sua storia in un passato arcaico, dove la macellazione del suino era non solo una necessità, ma un momento di aggregazione perché radunava tutti i membri della famiglia, spesso anche il vicinato, dove ognuno aveva un compito ben preciso da svolgere, seguendo rituali e tecniche vecchie di millenni.

Questo evento era considerato il sacrificio solenne del grande animale della quercia, che con la sua carne avrebbe dato sostentamento alla comunità per tutto l’anno.

Infatti, dopo aver fatto le carni, ci si riuniva intorno alla Padellaccia, un piatto composto di alcune rifilature di carne presa dalle due metà del maiale, pezzettini di animelle, di fegato e polmone, rosolate su di una grande padella di ferro, con vino rosso, sale, pepe e alloro.

Consumare insieme questo piatto faceva del giorno dell’uccisione un’occasione speciale e sanciva il carattere sociale di questo rito.

Il suffisso accio/a, che torna in alcune ricette della Valle del Cesano, come Padellaccia, appunto, Sanguinaccio e Sanguamiaccio, indiceva che questi piatti, fatto con i resti del maiale, erano un tempo offerti agli dei degli inferi.

Nel periodo che va da dicembre a febbraio, i mesi più freddi dell’anno, il maiale è pronto per la macellazione perché arriva alla sua maturazione e le basse temperature aiutano a conservare la carne appena macellata.

L’uccisione del maiale avveniva la mattina presto, subito dopo l’alba, o sull’aia o nello spiazzo adiacente al porcile domestico.

Nelle famiglie contadine ci si prendeva cura per tutto l’anno dell’animale, accudendolo e occupandosi della sua alimentazione, per avere la massima resa con le carni e soprattutto con il grasso, cioè il lardo e lo strutto, da sempre alla base di tutti i condimenti della cucina povera.

I maiali più allevati erano la Mora romagnola e il Cinturello, così chiamato per la fascia chiara nel tronco, infatti le sue carni erano considerate le migliori in Italia per la produzione dei salumi.

Fino a 50-60 anni fa i maiali se vivevano all’aperto ed erano liberi di cibarsi di ghiande, di faggiole, di castagne, di tuberi e di tutto quello che trovavano nel terreno, ma anche con gli scarti di cibo, semola, farina di orzo, mischiati all’acqua dove era stata cotta la pasta o l’erba con l’aggiunta di fava e favino.

A mano a mano che i maiali crescevano ai beveroni venivano aggiunte erbe, bucce di patate, le mele cadute in terra e quindi marce, zucche gialle, ghianda, per avere una carne più buona e saporita.

Non tutti potevano permettersi un maiale, infatti il più delle volte il contadino allevava gli animali per conto del padrone e al momento della macellazione, ci si spartiva la bestia che era divisa in due parti, dette le pacche.

La carne e il grasso del maiale, adeguatamente conservati, dovevano durare almeno fino al prossimo inverno e per molti era una fortuna arrivare a Natale con qualche pezzo di prosciutto o spalla avanzati, dato che si era fatto A cica, cioè si era mangiato molto meno rispetto agli altri anni.